Quattro giorni incastonati in un viaggio di 10, il mio piccolo Erasmus, che mi ha fatto scoprire persone vicine e lontane e mi ha permesso di vivere in una città meravigliosa. Un vero viaggio nell’anima di ciò che sono e di ciò che faccio.
Quattro giorni di corso intensivo (di nome e di fatto) per approfondire 4 rami fondamentali dalla disciplina del design: design strategy, design research, service design ed interaction design.
Quattro giorni che hanno dato solidità e forza alle mie conoscenze, che mi hanno fatto crescere come professionista e mi hanno fatto trovare la definizione del mestiere che svolgo, una frase che cattura il senso vero dei miei sforzi e dei miei obiettivi: risolvere problemi complessi grazie all’empatia.
Questa è una definizione che pone l’accento sul rapporto empatico che si costruisce tra utenti, stakeholder e designer divenendo lo strumento per una progettazione, ovvero risoluzione di problemi, davvero efficace. Mette in gioco il complesso mondo di sentimenti, qualità innate e coltivate, conoscenze e studi che ogni giorno usiamo nel nostro lavoro di designer e ci trasforma in risolutori di problemi guidandoci nella progettazione della giusta soluzione.
Con Anna, Visual Designer di GNV&Partners, sono partita il primo maggio, davvero un bel modo di festeggiare il lavoro! Ad accoglierci c’era una Copenhagen ospitale ed assolata, con i suoi magnifici edifici, i suoi canali, i riflessi dell’acqua, il suo ordine e la sua vivibilità. Abbiamo avuto cinque giorni per ambientarci, scoprirla, assaporarla. Abbiamo vissuto da studentesse, con altri studenti, in un ostello che sembrava essere saltato fuori da un libro di interior design della Taschen ed è stato per noi come l’Erasmus che non abbiamo mai fatto.
Poi è arrivato, il Day One, ecco il momento che aspettavo da gennaio.
UxIntensive, corso di formazione organizzato da Adaptive Path, si compone 4 giornate, ciascuna dedicata ad uno specifico ramo del design e strutturata per essere seguita anche singolarmente per apportare un’enorme quantità di conoscenze, ma sono senza dubbio più efficaci e complete se inserite nel quadro dell’intero corso. Ogni giornata è preludio e completamento della seguente, ogni nozione diventava davvero potente se aggiunta a quelle dei giorni successivi.
Al di là del senso di appagamento culturale che ho provato nell’avere seguito tutte le lezioni, mi sono resa conto una volta di più di quanto un bravo designer debba potersi destreggiare bene in tutti e quattro gli ambiti affrontati e debba sapere come e quando usarne le tecniche specifiche.
Patrick Quattlebaum ha messo il seme di questa consapevolezza nelle nostre teste sin dalle prime slide del Day One, ma una frase mi ha colpito in particolare:
Designers are empathic problem solvers who are skilled at aligning business, customer and employee needs within a specific context.
Ecco, qui c’è tutto.
Più la leggo e più mi rendo conto di quanto racchiuda davvero il senso di tutto il corso, leggendola d’un fiato è fondante e piena di significato; smontandola, permette di capire il mosaico che compone il nostro lavoro:
A specific context è il quadro, o contesto o meglio ancora l’ecosistema in cui nasce un progetto, che sia di un prodotto o di un servizio.
In questo quadro rientrano gli ideatori o promotori, che spesso coincidono con i committenti del designer, che associano al progetto tutta una serie di obiettivi di business.
Per realizzare il progetto sono necessarie persone con conoscenze e ruoli specifici gli stakeholder che nella nostra definizione sono descritti come employees.
I customers, infine, sono coloro che usufruiscono del prodotto o servizio.
Ciascuno di loro ha obiettivi, necessità, sentimenti, aspettative.
Ciascuno di loro agisce nel contesto, ma ognuno guidato da logiche diverse che poggiano su strategie, necessità ed emozioni diverse.
Il ruolo del designer è quello di studiare e comprendere le componenti di ogni livello dell’ecosistema per trovare le giuste risposte che soddisfino contemporaneamente i bisogni di tutti gli attori.
Smontata in questo modo la frase assume le forme di situazioni molto conosciute, no?
Ma come si fa a trovare quella sovrapposizione dei bisogni? Come la si interpreta? Come si traggono le risposte su cui baseremo i nostri progetti?
Come arriviamo a risolvere i problemi?
Non è semplice, non è immediato e non possiamo mai dare nulla per scontato. Giorno dopo giorno, i docenti di Adaptive Path ci hanno insegnato come fare.
Partendo dalla design strategy, possiamo utilizzare tecniche molto efficaci di mappatura dell’ecosistema, che ci aiutano a conoscere un nuovo dominio e a tracciare l’ordito delle interconnessioni tra tutti i suoi attori e le sue componenti.
Ma non basta. Canvas e sessioni di workshop, sono strumenti che non sono sufficienti se non impariamo a porre le giuste domande alle giuste persone e nel momento giusto. Come designer, se chiamati a dare risposte strategiche, non dobbiamo avere paura di arrivare ai giusti tavoli, quelli intorno a cui siedono coloro che possono darci davvero le risposte che cerchiamo.
Conosciuto l’ecosistema va inquadrato il progetto, ovvero, va costruita una strategia di progetto ipotizzando Customer Journey maps che ci aiutano ad individuare le core features di un progetto e ragionare su priorità, MVP e future implementazioni.
Delineata un’idea di cosa dobbiamo progettare, abbiamo in mano una serie di ipotesi di ciò che dobbiamo mettere in atto in base agli obbiettivi del nostro committente.
Adesso dobbiamo verificare che le nostre ipotesi siano ciò che desidera o ciò di cui ha davvero bisogno il nostro utente.
È ora di fare ricerca sul campo. Day 2, il giorno che più mi è rimasto nel cuore.
Ovviamente, per conoscere le necessità dell’utente dobbiamo scoprire quali queste siano.
Non bastano i numeri, la statistica ed i sondaggi. Questi ci danno informazioni preziose e basi importanti da cui partire, ma non ci danno lo spettro della disordinata e multiforme complessità della vita umana.
La ricerca con gli utenti è definita qualitativa perché ci consente di entrare in contatto con i reali utilizzatori dei progetti a cui stiamo lavorando e ci permette di vedere come questi impattano, anche solo per pochi minuti, nella quotidianità delle loro vite e nei loro spazi.
Ci sono diversi metodi di ricerca come l’Osservazione sul campo, le interviste, i test su task specifici, i Diari, i Focus Groups, ecc.. ognuno di questi ha caratteristiche, vantaggi e svantaggi diversi che vanno valutati accuratamente per scegliere la tecnica più idonea ad ottenere le risposte che stiamo cercando e, non ultimo, più adeguata al tipo di utenti che abbiamo di fronte.
Nick Reims ci ha mostrato come preparare con consapevolezza la nostra sessione di ricerca partendo dalle assunzioni da verificare, passando per la profilazione ed il reclutamento degli utenti, sino ad arrivare alla predisposizione della strumentazione corretta di cui dotarsi per eseguire al meglio ciascun metodo di ricerca.
Le informazioni raccolte e razionalizzate in documenti di follow-up come le Experience Maps, le Personas, le Customer Journey Maps sono ciò che ci aiuta ad informare il business e gli stakeholder e ci consentono di iniziare a lavorare su una conoscenza concreta e condivisa nel team.
Costruita una base solida di consapevolezza, è ora di sporcarsi le mani, di cominciare a progettare.
È il momento del Service Design e dell’Interaction Design.
Durante il Day 3 abbiamo imparato a studiare e mappare gli ambienti in cui vengono utilizzati o fruiti i prodotti o servizi che stiamo progettando. Abbiamo familiarizzato con i concetti di touch point, abbiamo imparato ad orchestrare il Front stage con il Back stage di un progetto, ovvero tutto ciò che entra in contatto con l’utente e tutto ciò che invece egli non vede, non percepisce: la magia…
Abbiamo appreso tecniche favolose di Service storming e Service modeling e abbiamo capito quanto l’improvvisazione teatrale, ovvero provare noi stessi a mimare situazioni ed eventi che fanno parte della fruizione del nostro progetto, sia fondamentale per capire davvero se siamo o meno sulla buona strada.
Durante il Day 4 abbiamo affrontato l’Interaction Design. Mi sentivo a casa…
Si progetta grazie a storyboards, schizzi e veri e propri prototipi, anche se rudimentali.
Nell’arco della giornata, divisi in gruppi di 6 o 7 persone, abbiamo ideato un’applicazione partendo da uno storyboard e siamo arrivati a costruire un prototipo di cartone. L’obiettivo era farlo testare a Patrick e Nick mettendo in scena la situazione reale di utilizzo. Il nostro MVP sarebbe stato verificato se loro fossero riusciti a comprenderne da soli l’utilizzo. Un vero test con l’utente!
Ci siamo divertiti un mondo, niente da dire! Ma ci siamo portati a casa un vero tesoro di conoscenze che ho messo in pratica nella quotidianità immediatamente dopo il mio ritorno.
Il 9 ottobre ho avuto la grande soddisfazione insieme a Luca di replicare quanto fatto durante il giorno 4 nel Workshop “Il valore dell’esperienza” che abbiamo tenuto a Verona. Rendermi conto che quanto appreso a maggio sia diventato tanto parte di me da poterlo insegnare, è stato un vero orgoglio.